Era il 14 settembre del 1943. Gianni aveva appena iniziato il servizio militare. Come molti altri era rimasto in caserma, perché così aveva ordinato il comandante.
Improvvisamente, di notte, arrivarono i tedeschi che li caricarono su due camion e poi su un treno merci che li portò lontano, da qualche parte a nord.. Gianni aveva solo 19 anni. Era un contadino e non si era mai allontanato molto da casa. Era solo andato qualche volta in città Adesso, invece, era a qualche migliaio di chilometri di distanza. In una regione chiamata Pomerania, dove era stato chiuso in una camerata fredda e umida.
Quella mattina, all’alba, la voce gutturale del guardiano del campo ordinò ai prigionieri di andare al lavoro. Tutti si alzarono, si coprirono in qualche modo ed uscirono in fila indiana. Percorsero solo qualche decina di metri per arrivare alla grande baracca dove era stata allestita una fabbrica di armi. Ad ognuno era stato assegnato un compito preciso: montare un pezzo di un’arma. Per Gianni quello era il secondo giorno di lavoro. Il giorno prima gli avevano spiegato che avrebbe dovuto montare il calcio ai fucili e gli avevano spiegato come fare. Appena arrivato alla sua postazione Gianni cominciò il suo lavoro. Incastro’ il calcio del primo fucile e lo fissò con le viti. Poi arrivò il secondo fucile, quindi il terzo e così via. Il lavoro era semplice, ma le sue mani grosse e già un pò callose facevano fatica maneggiare quelle viti così piccole. Mentre stava montando l’ennesimo fucile si accorse di essere osservato. Era il sorvegliante della fabbrica, che, con il cronometro in mano, controllava i tempi di lavorazione di ognuno. Gianni allora cercò di aumentare il ritmo. Intanto il sorvegliante, un tipo magro con gli occhiali e lo sguardo pungente, era sempre dietro di lui. Poi disse una frase in tedesco. Gianni di quella frase capi solo “schnell”, una delle poche parole di cui aveva imparato il significato. Un brivido corse veloce lungo la sua schiena. Temeva, come tutti, di essere condotto in una baracca senza finestre che si trovava in fondo al campo. Correva voce che vi venissero rinchiusi quelli che non facevano bene il loro lavoro o che cercavano di scappare. Gianni avrebbe voluto aumentare ancora il ritmo di lavoro, ma le mani gli tremavano. Il sorvegliante ripeté la frase di prima. Gianni cercò di spiegargli, a gesti, che non avrebbe potuto lavorare ad un ritmo maggiore di quello che stava tenendo. Il sorvegliante allora chiamò una delle guardie che si avvicinò a grandi passi. Gianni si sentì perduto. Pensò che quella guardia avrebbe potuto portarlo nella famigerata baracca in fondo al campo. Il sorvegliante scambiò poche parole con la guardia che poi si rivolse a Gianni in un italiano approssimativo e gli spiegò che il suo ritmo di lavoro era troppo veloce. Avrebbe dovuto montare un calcio di fucile in due minuti mentre lui lo faceva in un minuto e mezzo. Non andava bene. La qualità delle armi avrebbe potuto risentirne. Precisione tedesca.
Questo episodio è l’unico che Gianni raccontava ogni tanto. Tralasciava sempre di parlare del freddo, della fame che aveva patito e delle patate, quasi sempre crude, che uno degli addetti alla cucina riusciva a passargli di nascosto. Infatti non me lo raccontò lui, ma un veronese, suo compagno di prigionia che una volta andammo a trovare. A lui non dispiaceva ricordare anche i momenti più drammatici di quel tragico periodo. Gianni, invece, non ne parlava volentieri. Pensava che fossero poca cosa se confrontati con le sevizie e le umiliazioni subite da migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che poi a casa non tornarono più. Lui invece tornò, sfinito, ridotto pelle e ossa, ma vivo. Ogni volta che ricordo tutto questo penso sempre che se Gianni fosse finito nella baracca senza finestre, non sarei nato. Perché Gianni era mio padre.
Hermann Hesse 4ever&4always 🙏
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